Le ideologie non sono le copie conformi dei rapporti sociali di cui sono contemporaneamente l’espressione e le componenti interne. Esse li ripresentano secondo un senso sociale che gerarchizza le forze produttive e le mette al servizio degli stessi rapporti. Esiste, quindi, un ordine di priorità che si configura come un ordine strutturale di funzioni, contemporaneamente necessarie perché possa esistere una società. Naturalmente esse hanno un’importanza ineguale nel complesso dell’organizzazione sociale ma, tramite i propri legami interni e la loro veste formale che scinde e diversifica i processi di produzione e di riproduzione, concorrono alla stabilizzazione del sistema. In questo senso si può affermare che l’ideologia non rappresenta assolutamente l’acme di una piramide in cui la base è costituita dalla struttura, gli scalini dalle infrastrutture e le battute tra piano e piano dalle sovrastrutture. Diciamo che l’ideologia è una tavola sinottica particolare della storia di ogni periodo sociale. La particolarità consiste nel fatto che non solo in essa sono registrati tutti i fatti salienti, le idee e le funzioni, ma che in essa la storia deve leggersi per costruirsi, che ogni particolare tipo di società vi si deve specchiare per interpretarsi. Essa non legittima a posteriori ordinamenti preesistenti, poiché questi di fatto non potrebbero esistere senza quella particolare ideologia che rappresenta non solo il loro riflesso, la loro elaborazione, ma soprattutto la loro componente interna essenziale. Si deve credere che non esistono priorità temporali basate su particolari precedenze di apparizione fra infrastruttura e sovrastruttura corrispondente; bisogna prendere in considerazione l’assieme di tutte queste componenti sociali perché esse costituiscono, in concomitanza l’una con l’altra, delle necessità sociali. Sono il mezzo che l’uomo ha a disposizione per appropriarsi delle condizioni materiali dell’esistenza. In ogni forma di società esistono specifici tipi di rapporti di produzione e di conseguenza ogni lavoro (anche il lavoro d’arte, che si situa in una particolare posizione ideologica come tutte le attività umane) occupa una precisa funzione all’interno di essi. Proprio per la causalità strutturata di tutte le sue componenti (produzione, aree specializzate, mercato di diffusione, informazione) l’attività artistica pur essendo ideologica ha una componente superficiale ed esterna di tipo scientifico, che appare puntuale in tutte le epoche e in ogni tipo di società. In questo senso non vi è necessariamente incompatibilità tra organizzazione scientifica del lavoro e ideologia. La contraddizione sorge, però, non appena accantonata la scorza esterna si passa a esaminare il complesso meccanismo che fa sì che la cultura, mediazione necessaria tra la realtà e i rapporti sociali, diventi supporto dell’istituzionalità, nonostante la propria caratteristica deviante. Fino a ora abbiamo parlato solo dell’ideologia intesa come espressione e interpretazione delle forze produttive, come l’insieme in grado di attribuire delle finalità ai rapporti sociali, come un tutto armonico. Ma le cose cambiano radicalmente quando il lavoro culturale si rifiuta di essere puro gioco concettuale e si colloca in stato di conflittualità contro la classe sociale egemone, contro l’ordinamento sociale esistente. Il lavoro d’arte occupa un ruolo ben preciso, assume una funzione di rilievo all’interno della gerarchia delle forze produttive non tanto a causa della propria produzione specifica di merce, ma perché è strettamente collegato alle istanze culturali della propria epoca o, meglio, contemporanee al proprio svolgimento. Questa proposizione, apparentemente constatativa, è invece problematica e accusatoria. Mette il dito sulla piaga perché pur tenendo presenti due modi operativi ne privilegia uno, indicandolo come valido e candidato a una possibile scientificità intrinseca. Per quanto possa sembrare azzardato, riteniamo che l’arte borghese sia basata essenzialmente e quasi esclusivamente sulla buona riuscita del prodotto finale, sulla presenza fisica di un oggetto mercificabile. Al proposito, la metafisica hegeliana è padrona assoluta del campo e può tranquillamente riaffermare ai suoi alfieri che l’alienazione, a ogni buon conto, è un momento necessario per l’autorealizzazione dell’assoluto. La realtà oggettiva, la dialettica esistente tra la natura e le forze produttive che attraverso precisi rapporti di produzione la trasformano quotidianamente con la prassi del lavoro, non sarebbe che l’alienazione dell’idea, che tramite questa sua esteriorizzazione prende coscienza di sé come Spirito. L’opera finita assume l’aspetto di un feticcio, diventa l’immagine divina gravida di tutte le ipostatizzazioni degli ideali e dei desideri che l’artista, come uomo, proietta fuori di sé. La cultura gravitante attorno all’oggetto fisico, proponendosi come ideologia mitica, seppure con intenzioni critiche (ma quale mito non si allontana dalla norma?), non può che sottolineare, aiutandoli, i limiti delle forze produttive, concorre all’elaborazione di un mondo immaginario situato al di là dell’esperienza quotidiana degli uomini. La realtà viene scambiata con “le illusioni che ogni società, ogni epoca ha di se stessa”. Da questo concatenamento di non-realtà prende linfa la cultura borghese il cui potere si esercita mediante la funzione della mediazione sociale, sottile (ma non troppo) espediente per consolidare, a tutti gli effetti, la supremazia della classe dominante. Allora, è ben triste il destino dell’“artista” che, abbandonata l’ufficialità della norma, deve cercarsi una chiesa in cui dar sfogo alla propria paranoia, delle protettive tane ovattate che lo inducono a credersi il simbolo della sanità mentale. Ma chiesa e tane hanno sempre un padrone e la “Reairepugnanz”, l’opposizione reale, è una fiaba di magia.

Roberto Comini



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